di Raffaella Di Meglio
La cucina
popolare foriana, come quella isolana, è una
cucina povera e rustica, espressione di una società e di una
cultura di contadini, pescatori e artigiani, le cui ricette sono
tramandate di generazione in generazione. Contrariamente a quanto si
potrebbe pensare, ha una forte identità terrestre
più che marittima. Il mare ha infatti rappresentato nel
corso dei secoli una fonte di pericoli, soprattutto per Forio,
tormentata dagli sbarchi dei pirati. I suoi prodotti fondamentali sono
il coniglio, il maiale, gli ortaggi ed i legumi, le erbe selvatiche, il
vino.
Ortaggi e legumi
L’assolata
piana di Citara a
Forio, oggi una delle spiagge più note, era, insieme al
litorale della Chiaia, un’area destinata alla coltivazione ad
ortaggi che, accanto a quella della vite, per secoli ha caratterizzato
l’economia e l’alimentazione contadina. Dagli orti
di Citara provenivano le primizie che venivano caricate sulle barche
per essere smerciate altrove. Gli appezzamenti coltivati, detti
‘a siena,
erano irrigati con l’acqua termale del
bacino di Citara, attinta dal sottosuolo attraverso un sistema chiamato
in dialetto ‘u
‘ngign: una ruota fatta girare da
asini bendati in modo da riempire i secchi collegati ad essa,
successivamente svuotati in apposite vasche dove l’acqua
veniva fatta raffreddare.
Verdure
come indivia, lattuga, broccoli,
rape venivano consumate insieme a fagioli e lenticchie o utilizzate per
la preparazione di minestre
o zuppe.
Tra le
ricette
“povere” tipiche della cucina popolare sono le fave
arrapate e a m’nesta ‘e paparastigglie. Le fave
“arrapate” si preparavano a giugno, il
mese
successivo alla loro raccolta ed essiccatura. Si facevano bollire in
una pentola fave, patate e spighe di granturco fino a quando le patate
erano cotte. Terminata la cottura, si scolava l’acqua e il
tutto veniva sistemato su un grande piatto. Le fave erano
“arrapate” in quanto ancora un po’ crude
e grinzose.‘E paparastigglie è
una specie di
lattuga che
cresceva spontanea lungo i sentieri della Scannella: le famiglie povere
la utilizzavano insieme ai fagioli per preparare una minestra.
Piante selvatiche
Anche le
piante selvatiche non
coltivate, che crescono spontaneamente nei boschi, nei campi o nelle
rupi marine (ad esempio finocchi, scarole, broccoli e asparagi
selvatici, borragine, cicoria, tarassaco), venivano utilizzate in
ambito popolare, e lo sono tuttora, per la preparazione di zuppe
ed
insalate.
I
contadini, i pescatori ed i pastori
tramandavano le conoscenze sulle proprietà di queste piante
acquisite vivendo a diretto contatto con la natura. Spesso, soprattutto
in periodo di guerra o di particolari ristrettezze, le piante, le erbe
ed i frutti selvatici rappresentavano l’unica risorsa
alimentare disponibile. Una tipica minestra di verdure isolana era la
minestra salvagioia,
nella quale rientravano numerose piante spontanee,
tra le quali il tarassaco, il papavero, la borragine, il cardo. Le
casalinghe, se il sale scarseggiava, si arrangiavano a cucinare con
l’acqua di mare.
Anche le piante
aromatiche selvatiche
(come ortica, eucalipto, origano, rosmarino, basilico, alloro, salvia),
presenti in abbondanza sul territorio isolano lungo le coste, nei
luoghi soleggiati e sassosi, nelle radure o nel sottobosco, venivano e
vengono tuttora utilizzate in cucina non soltanto per aromatizzare ed
insaporire le pietanze, ma anche a scopo curativo, trattandosi per la
maggior parte di piante medicinali dotate di proprietà
antisettiche, digestive, diuretiche, espettoranti, lassative, ben note
ai contadini.
Con molte
piante aromatiche sulla base
di ricette tradizionali tramandate in famiglia si preparano tuttora in
casa tisane, infusi e liquori per la cura di disturbi leggeri quali
insonnia, tosse, mal di stomaco. Tra i liquori più diffusi
è il rucolino,
preparato con la ruchetta, pianta erbacea
dalle proprietà digestive. L’assenzio veniva
utilizzato in passato sull’isola per la preparazione di
alcuni vini medicinali.
In alcuni
casi i nomi vernacolari
rivelano l’uso terapeutico della pianta, come la santoreggia,
chiamata in dialetto locale ereva
pa’ tosse (erba per la
tosse) perché utilizzata per preparare decotti per la cura
della tosse cronica; le altre due specie di santoreggia presenti a
Ischia, la hortensis
e la greca,
sono adoperate per cucinare il
coniglio all’ischitana.
Esistevano
credenze e rituali intorno
alle erbe, alle loro proprietà nutritive e curative e alla
loro raccolta: l’influsso benefico della luna, la protezione
di santi cui venivano offerte le primizie, come le uve per S. Vito, S.
Isidoro, S. Restituta, le noci per S. Maria, il granturco per S. Anna.
Non
mancano
nell’alimentazione tradizionale altre erbe e
frutti che si raccolgono nei boschi isolani: funghi, more, capperi,
pinoli, castagne.
Carni: coniglio e maiale
La carne
era un lusso che la maggior
parte delle famiglie si poteva concedere raramente ed era quindi
consumata per lo più in occasioni particolari, quali feste
ed eventi rituali.
Il coniglio
rappresenta una delle
principali voci dell’allevamento isolano.
L’allevamento di conigli è diffuso
sull’intera isola da secoli. Fino al secolo scorso quasi
tutte le famiglie lo praticavano, in quanto il coniglio costituiva un
alimento capace di fornire proteine a basso costo. Era un prodotto
talmente importante che, come testimonia D’Ascia nella sua
storia dell’isola, quando il viceré don Pedro di
Toledo volle imporre il dazio sui conigli, gli isolani si opposero e al
tempo di Masaniello si ribellarono.
Il metodo
tradizionale di allevamento
è il fosso dei conigli, un fosso scavato nel terreno
tufaceo, profondo circa due metri e largo quanto una grossa botte, dove
i conigli crescono semiliberi, scavano le loro tane e si riproducono.
Gli animali vengono alimentati con erbe locali gettate nel fosso, come
il sonco, utilizzato come foraggio anche per i maiali. Con questo
sistema la carne diventa particolarmente gustosa.
Il coniglio
all’ischitana
è il piatto isolano per eccellenza. Il coniglio, tagliato in
pezzi, viene fatto dorare in una casseruola in olio bollente e poi
messo da parte. Nello stesso olio si fanno soffriggere
l’aglio ed il peperoncino, si rimette il coniglio e si
aggiunge un bicchiere di vino bianco; evaporato il vino, si aggiungono
i pomodorini locali e si fa cuocere il tutto a fuoco lento per circa
due ore. Numerose sono le varianti di questa ricetta, tanto che ogni
comune isolano e persino ogni famiglia aggiunge o toglie qualche
ingrediente. Il coniglio isolano viene
cucinato anche alla cacciatora, arrostito e insaporito con rosmarino. I
bucatini conditi con il sugo del coniglio sono il piatto
festivo
tradizionale.
L’altro
tipo di carne
più diffuso è quella di maiale.
Piatti
tipici
sono le costolette di maiale condite con peperoni in aceto e le
salsicce con friarielli. L’allevamento del maiale, insieme a
quello del coniglio, rappresentava soprattutto in passato una voce
importante dell’economia contadina isolana.
Dall’animale si ricavano infatti numerosi alimenti: strutto,
insaccati (pancetta, prosciutto, sopressata, capicollo, salsicce),
cigoli. Non si butta nulla: anche le interiora (polmone, cuore, milza)
vengono consumate in soffritti piccanti, il fegato è
cucinato in padella insaporito con foglie di alloro, e persino il
sangue rappreso del maiale, unito a zucchero, cedro, cacao e latte,
viene utilizzato per preparare un dolce, il sanguinaccio; con i peli si
facevano le setole utilizzate dai calzolai.
L’uccisione
del maiale era una
sorta di rito che si svolgeva fra dicembre e gennaio, mese in cui cade
la festa
di S. Antonio Abate, santo protettore del maiale e di altri
animali; in questa occasione vengono ancora oggi accesi falò
sui quali si arrostisce la carne di maiale. L’uomo addetto
all’uccisione del maiale, lo squartaporco,
con
l’aiuto di quattro o più uomini che tenevano fermo
l’animale disteso su un tavolo, squarciava il maiale con un
grosso coltello partendo dalla gola. Il sangue veniva raccolto in un
tino; l’animale, ormai senza vita, era poi bagnato con acqua
bollente, veniva raschiato e privato dei peli con un coltello affilato.
Appeso a testa in giù, gli si apriva il ventre per togliere
le interiora e lo si squartava.
Data la
difficoltà di
conservare l’abbondante carne ricavata dalla macellazione, a
volte si mettevano le costolette di maiale sotto vino, oppure i vari
prodotti (capocollo, salsicce, sopressata, ventresca) venivano
conservati nei cellai appesi al soffitto perché non fossero
mangiati dai topi. Le donne confezionavano la carne in pacchi, il
cosiddetto “segno” (‘u
sign’),
da inviare in dono a parenti e vicini.
Vino
La coltivazione
della vite
sull’isola, favorita dal terreno vulcanico, vanta origini
greche ed è stata fino al secolo scorso una delle maggiori
risorse dell’economia locale, ormai soppiantata dal turismo.
Tuttavia ancora oggi aziende vinicole producono vini eccellenti,
prevalentemente bianchi, ottimi per accompagnare il pesce.
Pesce
Il pesce
non occupa un posto centrale
nella tradizione gastronomica ischitana, il cui piatto tipico, come
già indicato, è il coniglio. I piatti a base di
pesce sono infatti quelli della tradizione napoletana. Il mare isolano
offre comunque in abbondanza varietà di pesci che sono
cucinati alla griglia, all’ “acqua
pazza”, lessi, marinati o in zuppe e in fritture miste. Oltre
al pesce azzurro (alici, sardine, sgombri, merluzzi), nella cucina
locale non mancano triglie, calamari, polpi, seppie, saraghi, orate,
scorfani, crostacei e frutti di mare.
Panetteria
I prodotti
della panetteria non si
distinguono da quelli napoletani. Molto diffuse nella cucina
tradizionale sono le pizze, da quella rustica farcita con ricotta,
mozzarella e insaccati a quella di scarole e quella con i cicenielli,
minuscoli pesci uniti all’impasto con origano e aglio. Tra le
specialità della panetteria figurano anche il tortano
,un
rustico ripieno di salumi e formaggi; i taralli impepati,
sorta di
ciambelle fatte con farina, strutto, mandorle, sale e pepe nero; le
freselle,
fette di pane arrostite che vengono intinte nel brodo di
cozze o di lumache, usate nelle zuppe per ricoprire il fondo del piatto
e, bagnate con acqua e aceto, come base per la caponata,
tipico
piatto
meridionale fatto con pomodoro condito con sale, olio, aglio, origano e
basilico.
In passato
la pizza con la scarola,
originaria proprio di Forio, sostituiva il dolce delle feste e ancora
oggi è un piatto tipico della cucina isolana. Per la sua
preparazione si usava un tegame di rame o di alluminio chiamato in
dialetto locale sartania. Si preparano due sfoglie di pasta per pizza:
una viene usata per foderare il tegame, sopra di essa si pone un
ripieno fatto di scarola cotta, uva passa, e, a scelta, noci, olive,
capperi, acciughe, il tutto condito con vino cotto per conferire il
sapore del dolce e coperto dall’altra sfoglia di pasta.
Nelle
famiglie povere, che non avevano
il forno e farina sufficiente per fare il pane, le donne preparavano
gli scagliozzi,
impasti di farina di grano dalla forma di pani fatti
cuocere lentamente a contatto con i mattoni del focolare e ricoperti da
cenere calda.
Dolci
Il dolce
era riservato ai giorni
festivi: tra questi il sanguinaccio,
a base di sangue di maiale
rappreso, i dolci di pasta, come il casatiello,
a base di farina,
zucchero, strutto, uova, lievito di birra e sale, e il migliaccio,
fatto con pasta (maccheroni, capellini o riso), uova, zucchero,
vanillina, latte e liquore.
Nell’uso
quotidiano i dolci
erano sostituiti dai fichi
cotti al sole e imbevuti nel miele, dalle
noci e nocciole
infornate o dai biscotti impastati col mosto o vino
cotto. I fichi secchi rappresentavano un prodotto importante
nell’alimentazione contadina: raccolti d’estate,
venivano fatti seccare al sole e conservati per l’inverno;
erano la merenda per i ragazzi e per gli uomini che lavoravano nei
campi.
Frutta
Meno
abbondante rispetto agli ortaggi,
la frutta foriana, come quella isolana in genere, è
rappresentata prevalentemente da agrumi (aranci, mandarini, limoni),
con i quali si producono sia in ambito domestico che a livello
industriale liquori, quale il rinomato limoncello; diffusi sono anche i
meli e i fichi. Fichi
secchi, molto utilizzati
nell’Ottocento, noci
e nocciole, oltre a sostituire i dolci,
riservati solo agli eventi speciali, venivano inviati ai parenti
emigrati in America desiderosi di continuare le loro usanze.
Piatti festivi
Alcuni
piatti, tipici della tradizione
gastronomica meridionale, sono legati a feste religiose: a Natale
il
pranzo o la cena della vigilia erano a base di pesce, ruongo o murena
(con il sugo della murena si condiva anche la pasta); sulla tavola non
mancavano la pizza di
scarola, i roccocò,
i casatielli,
i
mustacciuoli,
gli struffoli
e le nocciole
che venivano distribuite ai
bambini alla fine del pasto per i loro giochi;
tipici del periodo
pasquale sono le zeppole
di san Giuseppe, la lasagna,
la pastiera
a
base di grano, i dolci di ricotta, il migliaccio.
In
occasione di matrimoni e battesimi,
talvolta celebrati in casa, c’era l’usanza di
preparare liquori
a base di spirito ed essenze, che venivano offerti
insieme alle paste agli invitati seduti su sedie disposte in cerchio.
La parmigiana
di melanzane ad Ischia
è associata alla festa di S. Anna (26 luglio)
perché in quella occasione i pescatori si recavano nella
piccola cappella dedicata alla santa a Ischia portando in dono questo
piatto.
Vendita e scambio di
prodotti alimentari
I
prodotti
della terra, vino, ortaggi,
verdure, frutta, erbe aromatiche, avevano nel mercato
paesano il
principale luogo di vendita: era un caleidoscopio di profumi, di
colori, di figure, di voci. La merce veniva trasportata dai contadini a
dorso di asini o a mano, sistemata in cesti, canestri o cofani, portati
sotto braccio o sulla testa (le donne erano particolarmente abili nel
tenerli in perfetto equilibrio anche per lunghi tragitti poggiati su un
panno arrotolato in forma di cerchio sul capo, detto tortiello)
e
veniva esposta su stuoie di canne o su panni.
Suggestiva
è questa
descrizione del mercatino di Panza: